Palestra Narrativa | un’intervista a Matteo Pascoletti

Palestra Narrativa. Quest’anno il Laboratorio sulla Narrativa organizzato da settepiani prende una nuova forma e cambia nome. Cosa è cambiato e perché? Perché si chiama “Palestra”?

È una metafora che sintetizza sia l’approccio di chi si avvicina a un corso di scrittura, sia del mio modo di formare. Per chi frequenta corsi di scrittura, ho notato che le istanze sono molto eterogenee: magari uno ha il classico romanzo nel cassetto (che poi oggi è più spesso in un disco rigido, con varie copie di riserva, si spera), oppure ha una predisposizione, un certo talento che vuole esplorare o raffinare. Oppure esercita la scrittura in campi diversi dalla narrativa – giornalismo, poesia, sceneggiatura – e vuole ampliare il ventaglio di competenze. Dal canto mio, lavoro molto su quello che emerge durante gli incontri, perché anche il mio approccio alla scrittura, fermo restando delle competenze che sono centrali, vede la tecnica prendere la via dell’ascolto, del discernimento, del provare e riprovare e del saper vagliare al microscopio ciò che è stato prodotto. Mi suonerebbe incongruo tenere nella formazione metodi e mentalità che sono il primo a non applicare quando sono davanti allo schermo e alla tastiera.

Perciò ho pensato a “palestra” perché è un luogo in cui vai per lavorare sul corpo e la condizione psicofisica, che tu sia atleta o dilettante, e in cui hai bisogno di qualcuno che ti segua e ti sproni stando attento alle tue esigenze particolari.

Ormai sono tre anni che i tuoi corsi con settepiani prendono vita, quali risposte ci sono state da parte della città di Perugia e quali esigenze sono venute fuori?

Sulle esigenze direi che sicuramente c’è molto bisogno di farsi leggere e confrontarsi. Per esperienza farsi leggere mette in moto delle dinamiche che possono portare dall’imparare cosa assolutamente va evitato (ed è una fase spesso lunga e travagliata) al contatto con gli editori. Uscire dalla proprie aspirazioni e iniziare a incontrare il mondo, insomma.

Sulla città, se prendi la scena musicale, assai valida per qualità di gruppi e per un lavoro di etichette indipendenti e manifestazioni che ha fatto da vivaio o aggregazione, vedi subito che quella letteraria è indietro. Un po’ perché la scrittura è un’attività fortemente individuale e quindi chi vi si approccia all’inizio risente magari dello stereotipo del “genio solitario/incompreso”, un po’ perché le realtà valide che sono emerse al di fuori del contesto locale sono tutto sommato recenti, rispetto ai tempi del mondo di provincia – noi perugini siamo ontologicamente introversi, come può confermarti qualunque studente fuori sede. Penso a scrittori come Giovanni Dozzini o Gianni Agostinelli, alla Libreria Mannaggia (a Francesca e Carlo andrebbe fatto un monumento) o, spostandosi fuori città, a eventi come Calibro, solo per fare alcuni esempi. Non abbiamo però, per esempio, quella sorta di apprendistato e primo filtro tra velleità e aspirazioni concrete che forniscono le riviste letterarie – abbiamo avuto UmbriaNoise e ora settepagine, ma non una vera e propria cultura delle riviste letterarie. È un insieme di pratiche che fisiologicamente penso debba nascere dal basso, dalla quotidianità, e che certo non può essere promosso dall’alto – al massimo può essere in un secondo momento intercettato o valorizzato.

Qual è il target di riferimento dei tuoi corsi? Quali necessità pensi che soddisfino?

Non mi do target, a parte il fatto che chi non ha mai frequentato uno dei corsi deve mandare un suo testo, sia come base di lavoro sia per permettermi di farmi un’idea sulla scrittura. Credo che le motivazioni delle persone rispetto alla scrittura siano prima di tutto una questione che riguarda quelle stesse persone, e poi in un secondo momento il confronto su ciò che producono. Se uno mi dicesse “Posso farti leggere un racconto?” e quel racconto fosse una delle cose peggiori mai lette, terrei come approccio il dire dove e come potrebbe migliorare, più che ricorrere a perifrasi o eufemismi per suggerire il darsi alla proverbiale ippica. Poi sta alle persone decidere cosa fare dei consigli. E com’è nella vita di tutti giorni così cerco di fare nei corsi. Sulle necessità soddisfatte: di sicuro aiutano a vedere meglio e pensare la lingua, proprio come uno spazio abitato dalle parole. E quindi il suo uso, le infinite implicazioni e sottigliezze nella scelta delle parole, i mondi e le visioni che evocano, oltre al rapporto che passa tra un’idea, uno spunto, e la traduzione in un testo scritto.

Qual è il tuo approccio al lavoro sul testo? Di cosa le persone che scrivono secondo te hanno bisogno ora?

Anche qui cerco sempre un approccio alla formazione che sia compatibile con ciò che pratico nella scrittura. E nella scrittura c’è una fase creativa che deve essere molto libera, in cui è importante non giudicarsi, non mettersi filtri, e poi una complessa ma fondamentale fase di elaborazione, in cui quanto scritto va portato a maturazione – per esempio se un personaggio è un chirurgo sicuramente dovrò compensare un deficit di nozioni e lessico. Per questa seconda fase è molto importante avere feedback. Faccio un esempio concreto: se scrivo una storia dove un personaggio è molto lontano dal mio sistema di valori, potrei avere difficoltà a renderlo plausibile al lettore, potrebbe risultare più stereotipato rispetto agli altri, o monodimensionale. Allora attraverso le letture a campione è probabile che molti responsi punteranno verso quel personaggio: magari i lettori daranno dieci pareri diversi, ma la maggior parte, in qualche modo, mi indicherà in quella direzione qualcosa che va rivisto con occhi diversi. Inoltre lettori con background diversi hanno di solito punti di ingresso diversi rispetto a una storia, sono sensibili a diversi elementi. Un letterato è più razionale e tecnico di solito nella lettura, mentre se scrivo un racconto che affronta discriminazioni di genere una lettrice sarà più portata a empatizzare rispetto a un lettore, perché nella vita reale sono probabilmente stati su fronti opposti di esperienze analoghe.           

Come vuoi che escano le persone da questa tua Palestra?

So di aver fatto un buon lavoro quando, tornando su un testo precedentemente scritto, chi ha frequentato il corso trova miriadi di modifiche e miglioramenti, o magari qualche idea o punto di vista nuovo che prima non aveva nemmeno pensato. E se ovviamente continuano a scrivere.

Qual è stata, in aula, la risposta degli allievi? Come si sono approcciati a te e al lavoro sul testo?

La risposta finora è stata molto buona, di sicuro molto superiore alle mie aspettative (ma considera che di carattere sono cinico e pessimista), tanto che molti sono tornati per più corsi. Questo mi è stato molto utile sia per evitare di meccanizzare la formazione, sia per trovare approcci e metodi nuovi.

Come deve approcciarsi, secondo te, una persona che decide di seguire un laboratorio di scrittura? Come può scegliere un docente piuttosto che un altro?

Il consiglio che do sempre, e che a mia volta ho seguito quando sono stato dall’altra parte di un corso, è di studiarsi un attimo il docente, ciò che scrive. Questo per un fatto molto semplice: se mi piace come scrive, se dalla distanza mi sembra una persona interessante, sarò più predisposto a farmi accompagnare in terreni e sensazioni nuove, a esporgli le fragilità e le criticità dei miei testi. Mentre se il suo modo di scrivere non mi piace avrò più resistenze, sarò più chiuso e meno curioso, ci sarà un’irrazionale ma imprescindibile diffidenza a fare da muro. Inoltre se dal curriculum esibito il potenziale docente ci sembra una sorta di mostro, magari conviene dare un’occhiata alla rassegna stampa su di lui, o controllare se per Google è un perfetto sconosciuto. Se la maggior parte dei complimenti se li fa da solo, forse non è proprio il maestro Miyagi.

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